L'antefatto: il libro di Mirella Serri, da un post di Luca Tassinari su it.cultura.ebraica
L'articolo di Giorgio Israel, sul Foglio di oggi
Quando mi iscrissi all’Università di Roma, nel 1964, fu per me un autentico shock trovare in calce al mio libretto universitario la firma dell’allora preside della Facoltà di Scienze, Sabato Visco. Era un nome da brividi a casa mia. Mio padre era stato primo aiuto e sostituto in ogni funzione del biologo senatore Giulio Fano. Quando questi morì improvvisamente, egli si vide piombare davanti Visco come successore del Fano. Innumerevoli racconti circolano circa l’incompetenza scientifica di costui (anche a me narrati qualche anno fa dal Nobel Emilio Segré). Ma al di là degli aneddoti c’è di oggettivo la mediocrità della sua produzione scientifica e il suo curriculum razzista a tutto tondo culminato nella funzione di Capo dell’Ufficio Razza del Minculpop. Rese impossibile la vita a mio padre, che tormentava con discorsi antisemiti che propinava dietro la sua scrivania roteando un mazzo di chiavi, fino a determinarlo a rassegnare le dimissioni, quando ancora non erano state promulgate le leggi razziali. Vedendo quella firma mi rivolsi a Lucio Lombardo Radice e gli chiesi come un simile personaggio potesse essere preside di una facoltà così prestigiosa (e progressista). Ne ricevetti una stupefacente risposta: “Si, va bene, ma è tanto bravo a trovare denaro”. Fu di certo la mia militanza comunista a farmi accontentare di una simile spiegazione. [...] In fondo, di fronte alla vicenda Visco, da buon militante comunista, mi ero chiesto più volte se non ci fosse qualcosa di errato nei giudizi e addirittura negli atti di mio padre. Come spiegare altrimenti l’atteggiamento condiscendente di un rispettabile esponente dell’antifascismo come Lombardo Radice? Me lo chiedevo anche a causa di una domanda corrosiva che metteva in discussione la credibilità di mio padre. Era una domanda non ipotetica, che mi ero sentito rivolgere tante volte dai miei “compagni”: “Che faceva tuo padre mentre gli altri facevano la resistenza?”. Ed ero costretto ad ammettere, con un sentimento di vergogna e di menomazione, che egli era stato “soltanto” un perseguitato, magari nascosto in un convento, una specie di imboscato. [...] Sarà opportuno un giorno narrare e analizzare le devastazioni prodotte da un simile modo di pensare nelle coscienze di tanti
militanti comunisti ebrei, quelli che non avevano imbracciato il fucile e non si erano conquistati il diploma di eroi o vittime di prima classe. Gli esempi di questa perversa forma di intimidazione sono sotto gli occhi di chiunque voglia tenerli aperti. Anni fa citai il caso del film “All’armi siam fascisti”, un documentario storico di Del Fra, Mangini e Micciché, su testo di Franco Fortini, che pure aveva destato le mie passioni di giovane militante. In quel film le immagini di Auschwitz era commentate con una sola frase: “Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L’odio di classe si traveste da odio di razza”. Un puro travestimento… Insomma, lo sterminio razziale poteva rientrare negli schemi mentali di un comunista e nei parametri di ciò che è condannabile nella misura in cui era riconducibile a una manifestazione di odio di classe. Si potrebbe dare una migliore illustrazione di quanto sopra descritto? Sì, può essere data. Ed è la storiografia a darcela. O meglio: la constatazione che la questione della politica razziale del fascismo è stata sempre sistematicamente ignorata dalla storiografia comunista che l’ha scoperta soltanto molto tardi, mentre è stato il vituperato storico “revisionista” Renzo De Felice a scoperchiare per primo la maleodorante pattumiera.[...] L’amnistia togliattiana, rapida e generosa, soprattutto per quei ceti della classe dirigente, in particolare intellettuali, che potevano offrire la complicità e la fedeltà in cambio del lavacro dei peccati, che potevano garantire l’egemonia, soprattutto culturale, in perfetta applicazione delle prescrizioni gramsciane: conquistare le “casematte” della società. E’ in questo contesto che va visto il connubio che si è verificato in “Primato”. Non si tratta certo di riesumare l’improbabile teoria secondo cui Bottai preparava qui la covata degli intellettuali atti a gestire la caduta del fascismo: Bottai è stato fascista e razzista fino in fondo. Ma la coesistenza di un così alto numero di intellettuali – fascisti, cattolici, comunisti – in questa iniziativa, ha creato il terreno atto a favorire il trasferimento in blocco di tutta la compagine sotto nuove ali e a realizzare una nuova egemonia culturale. “Primato” è stato la premessa ideologica dell’amnistia togliattiana e, al contempo, la condizione per il suo successo. Del resto, come era possibile convincere tanti personaggi, che si erano letteralmente insozzati di razzismo, a passare armi e bagagli dall’altra parte, se non offrendo in cambio un robusta cortina di silenzio? E, viceversa, come si poteva agire diversamente,
quando tanti intellettuali non fascisti o addirittura antifascisti avevano accettato certi compromessi, come quello di scrivere su “Primato”, una pagina più in là di Bottai? [...] Fecero eccezione pochissimi, tra cui Gentile: ma lui ci ha pensato un eroe partigiano ad abbatterlo, mentre ai “difensori della razza” si stendevano i tappeti del potere.
Così è stato. Tanto vasto è stato il livello di compromissione del mondo della cultura. E allora che dovremmo dire? Che, siccome la crema della cultura italiana si è macchiata di razzismo antisemita, questo non è mai esistito? O che altro diamine dovremmo dire, per non provocare l’irato fastidio di chi non
vuol vedersi sbattere ancora tra i piedi questa vecchia storia? Dispiace se qualcuno si sente disturbato nella sua pennichella, ma sono passati i tempi in cui quattro insulti di stile baffuto potevano intimidire e indurre al silenzio. [...] Ma si dice che “Primato” non era una rivista razzista e che neppure Bottai lo era. Quando si ha il coraggio di accompagnare il nome di “Primato” o quello di Bottai con l’ironica virgolettatura accompagnata da punto esclamativo “ariano e antisemita” (!), è chiaro che si mira a provocare una reazione emotiva, che sarebbe sacrosanta. Ci vuole una bella dose di incoscienza provocatoria nel prodursi in simili sghignazzate, in barba a centinaia di pagine di documenti che mostrano come Bottai sia stato il campione della politica razziale, uno dei suoi più pedanti, accaniti e spietati esecutori nell’ambito culturale, e un dichiarato assertore della centralità della tematica razziale nell’ideologia del fascismo. Bottai intellettuale di prim’ordine? Certo, si accomodi – e in tal modo si qualifichi – chi vuole abbeverarsi alla fonte del fine pensatore che vedeva nella filosofia di Spinoza una prova del “pervertimento giudaico” o che concludeva il Congresso dell’Unione Matematica del 1940 proclamando: “La matematica italiana, non più monopolio di geometri d’altre razze, ritrova la genialità e la poliedricità tutta sua propria per cui furono grandi nel clima dell’unità della Patria, i Casorati, i Brioschi, i Betti, i Cremona, i Beltrami, e riprende, con la potenza della razza purificata e liberata, il suo cammino ascensionale”. Se si vuole andare a braccetto di simili figuri, e proporre questo pattume come crema della cultura, ci si accomodi: vuol dire davvero che il modello politico-culturale di “Primato” per certuni è ancora attuale.
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