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Sergio Soave, docente di storia contemporanea (diessino) firma questo
articolo su comunismo e potere, riflette sul fallimento, o meglio la
mancanza storica di qualsiasi spazio per il "comunismo democratico" e
rilegge la vicinanza del PCI al PCUS in termini non ideologici, ma di
apprezzamento politico per la politica di potenza sovietica.
Anche la forza del PCI nascerebbe da una "politica di potenza" interna,
legittimata dal ruolo di "emissario" di una grande potenza.
L'irrilevanza del dissenso democratico nella crisi e nel crollo
dell'esperienza comunista evidenzia la mancanza di una forza interna e
ineluttabile delle democrazia. E il bisogno, anche per la democrazia,
di affermarsi attraverso una politica di potenza.
Sforbicio un po' e linko in fondo.
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Uno dei difetti che si
possono riscontrare in altri studi dedicati
allo stesso argomento è che il Pcus
è considerato una specie di monolite,
privo di articolazioni interne, il che rende
il quadro parziale e per qualche
aspetto incomprensibile. Assai spesso i
comportamenti e le scelte dei dirigenti
del Pci sono stati la conseguenza della
percezione che avevano del confronto in
atto nelle alte sfere del Cremlino. Tutta
la storia del Pci, e degli altri partiti comunisti,
in questo senso, è legata indissolubilmente
alla storia del Pcus.
(...)
due leader del Pci [ingrao e amendola] che, con prospettive diverse,
anzi opposte, avrebbero posto, negli
anni successivi, il problema della democrazia
interna al partito e della liquidazione
della doppiezza sul carattere
democratico della via italiana al socialismo.
Ambedue, però, allora [1956], parteggiavano
per i carri armati, e questo spiega
perché in realtà non ci fu mai, nel “campo
socialista”, uno spazio reale per il cosiddetto
“comunismo democratico”.
Questo spazio non si è creato neppure in
quei paesi e in quei partiti comunisti
che ruppero col Pcus, in modo radicale
come quelli yugoslavo, cinese e albanese
o, in modo meno traumatico, quello
rumeno. La ragione è semplice: spezzare
il legame con la madrepatria sovietica
esponeva i gruppi dirigenti dei partiti
comunisti “eretici” al rischio di rotture
interne, provocate o no dall’azione
del Pcus, per reagire alle quali scelsero
sempre la via della repressione del dissenso
(...)
Si può
dunque pensare che la distinzione tra
socialismo democratico e comunismo
stia invece nella concezione della forzatura
volontaristica della storia. Se le cose
stanno così, è giustificato l’uso spregiudicato
della teoria al servizio delle
scelte politiche e di potere, di cui Stalin
fu maestro. Lo strumento per “forzare”
la storia è il potere, che non può essere
condiviso, se non per brevi periodi di
transizione e per ragioni tattiche, con
chi non abbia lo stesso intendimento. Se
le cose stanno così, ci si può proporre di
esaminare la storia del comunismo come
storia di un potere, e nel caso dell’Urss
di una potenza, che obbedisce a
dinamiche proprie. Il terreno principale
su cui si è mossa la graduale contestazione
della politica sovietica nel Pci,
infatti, è stata la critica alla “politica di
potenza”, condotta essenzialmente dalla
sinistra del partito
(...)
Si può
allora proporre un cambiamento di ottica,
che porta a considerare l’appoggio
all’Urss non come un fatto ideologico,
ma come un apprezzamento politico della
sua politica di potenza. Il caso di
Amendola può aiutare a seguire questo
ragionamento. Com’è noto Amendola
non condivise la critica, espressa dal
Pci, per l’occupazione sovietica dell’Afghanistan.
Ai suoi amici, che gliene chiedevano
stupiti la ragione, spiegò che
quelli che si opponevano all’Urss in
quella parte del mondo non combattevano
per la libertà contro il comunismo,
ma contro la secolarizzazione occidentale,
di cui l’Urss, ai loro occhi, era l’espressione.
Anche questa, col senno di
poi, può essere considerata una lettura
profetica. Amendola esprimeva l’apprezzamento
per la funzione di stabilizzazione
esercitata dall’Urss nel contesto
del bipolarismo, cioè una considerazione
sulla politica di potenza sovietica, anche
quando aveva ormai perso ogni illusione
sul suo regime interno e non nutriva
più speranze sulla sua riformabilità.
E’ un fatto che l’Urss è crollata
quando è fallita la sua politica di potenza
(...)
Una lettura meno ideologica delle vicende
del comunismo pone problemi
sgradevoli anche ai sostenitori della forza
ineluttabile della democrazia. Pensare
che sia stato il deficit democratico a
far crollare l’impero sovietico e a condurre
alla trasformazione socialista o all’irrilevanza
politica le forze comuniste
nei paesi democratici è consolatorio, ma
si può dubitare che sia vero. Il fallimento
del “comunismo democratico”, illustrato
anche da Guerra, che pure ci ha
creduto, è un aspetto del fallimento del
comunismo, ma è anche un segnale del
fatto che la democrazia non ha una “storica”
forza intrinseca, ineluttabile e invincibile,
e che quindi anch’essa per affermarsi
ha bisogno di una politica di
potenza.
(...)
I comunisti in Italia hanno
contato perché hanno saputo creare un
loro sistema di potere e perché erano
considerati gli alleati, e per certi aspetti
i mandatari, di una grande potenza.
Per questo hanno esercitato una funzione
tanto rilevante, nel bene e nel male,
nella storia del paese. Trascurare questi
aspetti fondamentali e fondanti, per inseguire
le chimere di una visione tutta
ideologica della loro alterità rispetto alle
questioni materiali del potere e dell’equilibrio
delle forze, può apparire utile
sul piano propagandistico, ma non
aiuta a capire la realtà di un’esperienza
che ha avuto tanto peso nella vicenda
italiana e internazionale, e quindi a elaborarne
criticamente il superamento.
Sergio Soave
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