19.6.06

Uno Shabbat a Karlovy Vary

Sorridi, sei sul TBLOG

Di tanto in tanto mi capita di trovarmi a Karlovy Vary. Col suo nome tedesco di Carlsbad fu una località termale aubsburgica, poi diventata cecoslavacca. Fu sede di una numerosa e fiorente comunità ebraica fino al 1937, quando, durante la crisi dei Sudeti, tutti gli ebrei locali lasciarono in fretta la città. E a buona ragione, visto chela sinagoga monumentale di fronte alla quale avevano stazionato le carrozze dei Becher e dei Moser fu immediatamente data alle fiamme e distrutta, nel 1938.

La comunità è stata ricostituita dopo la guerra. Stavolta molto poco numerosa e ancor meno fiorente. E, come tutti i cittadini (ma forse un po' di più) ha dovuto sopportare la lunga parentesi grigioferro del regime comunista, che per circa cinquant'anni le ha impedito di avere un rabbino. Oggi, Karlovy Vary è un incantevole e coloratissima località di villeggiatura e se non fosse per qualche cicatrice architettonica che non sfugge ad un occhio allenato, sembrerebbe aver vissuto secoli di spensierata e ininterrotta felicità. Giù in basso, lungo il torrentello che divide la deliziosa cittadina, è addirittura pieno di frecce che indicano "Synagogue", con un indirizzo. E' uno dei segni di simpatia per la sparuta comunica ceca che il regime democratico di Havel ha voluto lasciare, in contrasto con la politica silenziosamente ma inequivocabilmente antisemita del vecchio regime comunista.

E' anche marketing azzeccato, pensavo, visto che la cittadina mitizzata in tutto il vecchio mondo sovietico come destinazione dei più prestigiosi viaggi premio della nomenklatura, pare oggi frequentata da numerosi israeliani (ex-russi?), almeno a giudicare dai cartelli con il cambio in Shekel, da qualche gioiello ebraico in vetrina accanto a quelli cristiani, dalla enorme Hannukkiah d'argento ben lavorato che si vede nella vetrina di un gioielliere del centro.

Un giorno di qualche anno fa seguendo le indicazioni delle frecce, mi sono inerpicato sulla collina dietro a quel dinosauro di regime chiamato Hotel Thermal: un monoblocco di cemento armato in stile comunista-babilonese al cui confronto gli ecomostri pugliesi appaiono come gioielli di Le Corbusier. Ecco, solo due lunghe curve più su, appena all'interno del bosco c'era un palazzetto di cemento un po' triste ma decoroso, con una bella insegna blu in ebraico che nel frattempo ho imparato a leggere: "Beit Knesset". Avevo dato un'occhiata dentro: oltre ad ospitare uffici e gabinetti medici, era anche la sede piuttosto frugale ma spaziosa della ricostituita comunità ebraica: da un lato c'erano gli uffici, dall'altro l'ingresso alla sala del Tempio. Era un giorno feriale ed ero salito solo per curiosare e così me ne ero andato senza parlare con nessuno, pensando che prima o poi ci sarei tornato in un momento più favorevole.

L'ho fatto questo Shabbat. Era il giorno giusto per essere lì. Avevo la perfetta congiunzione astrale per mollare clienti e soci ai loro festeggiamenti sportivi e così mi sono alzato un po' più presto di quello che amerei fare di sabato. Ignorando il grado di osservanza della locale comunità, ma supponendolo non ossessivo, ho preso lo zainetto e ci ho messo dentro il tallet (già che porto, mi porto almeno un tallet della mia misura, ho pensato), una Torah Di Segni (ovvero con la preziosa traduzione in italiano). Ho invece lasciato nella camera d'albergo il siddur. Ormai sono abbastanza in grado di seguire un servizio ortodosso in ebraico nei vari riti. E il mio libro di preghiere reform immaginavo non sarebbe stato di alcuna utilità per districarmi nel puro shachrit shabbat ashkenazita che pregustavo con piacere. Avrei in ogni modo trovato al tempio tutto quello che poteva tornarmi utile.

Ho ripercorso quasi a colpo sicuro i passi che avevo mosso con qualche esitazione topografica anni fa. Anzi, ho trovato d'istinto una scorciatoia nel boschetto che mi ha permesso di risparmiare un tornante piuttosto lungo e così, molto prima di quanto mi aspettassi, mi sono ritrovato di fronte al palazzetto che ricordavo. Ancora un po' più triste, questa volta, perché della scritta "Beit Knesset" era rimasta solo la prima metà: la seconda parte dell'insegna persa chissà dove.
Ho salito in perfetta solitudine i pochi gradini di graniglia, percorrendo con la mano la ringhiera su cui fioriva un po' di ruggine, ma non troppa. Tutto sommato in armonia con lo stato della costruzione. Sotto la piccola tettoia in cima alla scaletta, accanto al portoncino di metallo e vetro in stile condominiale, mi sono fermato a guardare la bacheca di vetro. Il calendario ebraico era aggiornato, i cartelli erano sempre al loro posto. Bene. Mi sono sentito sollevato dalla strana sensazione che la quiete forse eccessiva aveva cominciato a procurarmi senza che me ne accorgessi. Ero salito indossando la kippah attraverso i sentieri che dal Thermal attraversavano il boschetto e in quell’ora che, dopo tutto, era in quasi ogni sinagoga del mondo l’inizio di shachrit shabbat, non avevo incontrato nessuno che sembrasse diretto come me alla sede della Comunità. Ora però, davanti al calendario con gli orari di accensione delle candele, del tallet, dello shemà, tutto sembrava tornare a posto.

Il portoncino era chiuso. Non si tirava, non si spingeva, La maniglia non girava. No, era assolutamente e inequivocabilmente chiuso. Chiuso su un palazzetto inanimato. Ero fuori dalla sede in cui non si intuiva vita, se non un calendario ebraico, che ho ricontrollato, trovandolo di nuovo perfettamente aggiornato, e un posacenere a colonna sotto la tettoia, inzeppato di mozziconi. Era troppo presto? Forse, per quanto strano, le abitudini della comunità locale erano improntate ad una lentezza di messa in moto mattutina che non mi era ancora capitato di incontrare al di fuori della mia comunità.

Però il calendario ebraico era aggiornato. Segno di vita forse non vivacissima, ma inequivocabile. Non era il caso di perdere la fiducia. Spalle al portoncino mi sono fermato ad ammirare il bosco che scende verso il torrentello, perdendomi nei puntini rosa gialli e azzurri degli edifici teresiani che lo costeggiano, e dove tra poche ore si sarebbe svolta la gara di canoe, ragione della mia presenza in città.

Non so quanti minuti erano passati quando alle mie spalle ho sentito una voce amica: "Shabbat shalom!". Un omone, suppergiù delle mie dimensioni che al posto della kippah indossava un copricapo di lana grezza che a occhio definirei tagiko, mi stava invitando ad entrare nel portoncino. Avevo fatto bene a non andarmene. "Shabbat shalom", gli ho risposto tendendogli la mano, in quella che sarebbe rimasto l'unico scambio verbale articolato di quella strana mattinata. Mentre cercavo di informarmi sull'orario d'inizio di shachrit, è stato immediatamente chiaro che eravamo divisi sia dall'ebraico colloquiale, che dal russo, che dall'inglese, che dall'italiano, nessuno dei quali raggiungeva il numero minimo di parlanti necessario alla comunicazione.

Sono entrato nel tempio, che l'uomo mi aveva spalancato con grande cortesia. Ero assolutamente solo: la bimah davanti, la mechitzah alle spalle, l'aron di fronte, le pareti tappezzate di libri, grandi tavoli per lo studio. Il neir tamid acceso. Talleisim a forti strisce nere e blu, appoggiati un po' dappertutto, specialmente sulle ringhiere della bimah. L'uomo mi aveva lasciato lì, ancora una volta da solo.

Come prima cosa, ho cominciato a curiosare tra i siddurim e i chumashim. Un po' per vedere che cosa si offriva al pubblico che immaginavo estremamente cosmopolita di quella sinogaga, un po' per procurarmi qualcosa di utile, magari con traduzione in qualche lingua conosciuta, che mi guidasse attraverso i salti e le svolte brusche che i chazanim non si fanno mai mancare, nel tentativo di scrollarsi di dosso e seminare lungo il servizio il resto del minyan. E certamente me.

La scelta è caduta su un siddur un po' consunto, stampato a New York nel 1959, e di apparente impostazione conservative, visto che la beracha "lo assanì ishah" (ma non le altre) era stata sostituita da altra più palatable. E in quel siddur, di nuovo, mi sono perso per un tempo che non saprei determinare.

Ammiravo la legatura, provata dall'uso ma ancora solida, la copertina dai margini sfilacciati che lasciavano apparire il cartone sotto la tela blu scura e le pagine, che erano state percorse innumerevoli volte fino a raggiungere uno stato quasi traslucido. Cercavo soprattutto di identificare i punti salienti del servizio, capire la struttura non razionalissima che era stata
data al libro: un approccio cervellotico che -mi era chiaro- mi avrebbe costretto di lì a poco a saltare avanti e indietro per le pagine, col rischio di perdermi in modo definitivo e irrimediabile.

Dopo un tempo imprecisato di immersione e concentraziome, ho sentito tornare l'omone che mi aveva aperto. Mi ha guardato per un attimo dalla porta del tempio e vedendomi assorto nello studio, se n'è andato una seconda volta, e non saprei dire dove si sia diretto. Ormai, a quell'ora, persino la mia sinagoga sarebbe stata brulicante di attività. Ho deciso di avvolgermi nel tallet e di cominciare se non altro le benedizioni del mattino e i salmi preliminari, che avrei sempre potuto ripercorrere dopo. Esaurite tutte le possibili introduzioni e antefatti al servizio, però, la sinagoga era altrettanto deserta di quanto fosse prima.
Ho continuato a dire Shachrit, un po' in silenzio, un po' cantillando a bassa voce il nusach che è familiare a me, ma che quei muri forse non avevano mai sentito. Ho letto in silenzio la Parashà. Sono arrivato ad Adon Olam e continuavo ad essere l'unico frequentatore della sinagoga e forse l'unica persona all'interno del palazzetto, insieme al mio amico dal copricapo tagiko, che però non ho più visto.

Ho piegato il tallet e l'ho rimesso via. ho visitato l'atrio del tempio, osservando le foto raccolte in pagine sottovetro incardinate al muro, un po' come si vedeva nei vecchi negozi di dischi. L'ufficio del rabbino, vuoto. I corridoi, vuoti. Anche il mio amico era scomparso. Ho richiuso la porta con attenzione. Ho sceso la breve scala, mi sono guardato indietro. Ancora nessuno. Ho attraversato di nuovo il bosco, ho ripercorso il lungofiume e quasi immediatamente mi sono ritrovato nella mia camera d'albergo con ore di anticipo su un servizio che supponevo sarebbe stato lunghissimo. Per l’arrivo delle canoe c'era ancora molto tempo.

Sono tornato a letto, come se quella mattina non mi fossi nemmeno mai alzato.

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La foto è di Andras Kertesz

2 commenti:

Rosa ha detto...

grazie, mi è piaciuto :-)

Anonimo ha detto...

Racconto stupendo. E tristissimo.