Giorgio Israel su Il Foglio, venerdì 20 2006
Risponde all'intervento di Chiara Sereni "La colpa di essere ebrei". Estratto. [Vale la pena di leggere tutto, il link è sistemato]
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Evoco questo ricordo perché porta al tema che è al centro dell’intervento di Clara Sereni: la difficoltà di conciliare un’identità ebraica con una militanza comunista. È un problema che hanno vissuto tutti i dirigenti comunisti che non hanno accettato di sopprimere totalmente ogni legame con la loro identità ebraica, come fu il caso di Umberto Terracini. Nella mia modesta esperienza l’ho vissuto anch’io per lunghi anni ed è chiaro che Clara Sereni lo vive ancora e con tormento.
Nel suo intervento Clara Sereni denuncia due episodi che l’hanno ferita – e quanto duramente è facile capire da come ne parla! – l’uno pubblico e l’altro privato: essere stata presentata a una tavola rotonda della CGIL come “ebrea e scrittrice” e l’aver dovuto ascoltare, durante un pranzo di compleanno di amici di sinistra, espressioni di vero e proprio pregiudizio antiebraico.
Capisco il suo turbamento e le esprimo la mia solidarietà. Ma mi chiedo: delle due l’una, o il livello di pregiudizio antiebraico ha raggiunto nella sinistra livelli esplosivi, oppure Clara Sereni è in stato di catalessi da qualche decennio. Precisamente dal 1967, da quasi quarant’anni.
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Da quel momento le cose iniziarono a prendere una piega sempre più brutta. [...]
Potrei raccontare tanti altri episodi del genere, pranzi e cene come quelle di Clara Sereni, a suon di «Come mai voi ebrei siete quasi tutti commercianti?». Sarà per un’altra volta. Per ora mi limito a dire che l’episodio di cui sopra mi servì a capire una volta per tutte una cosa: che potevo scegliere di restare nella sinistra comunista o uscirne ma, qualsiasi cosa avessi fatto, ai razzisti e agli antisemiti occorreva rispondere soltanto con un calcio – ovviamente verbale – nei denti e, se non basta, nel sedere.
È l’unica pedagogia che può svegliare la coscienza di coloro che sono in buona fede. Ed è l’unico modo di salvare la propria dignità e integrità, la verità e la giustizia. Quel che certamente avevo appreso è che non è possibile lasciarsi colpevolizzare, subire la richiesta inaudita di dover fare un atto di discolpa. L’ha capito questo Clara Sereni? Non pare, visto che dice: «come tante altre volte, ho dovuto, come ebrea, fare il mio “Radames, discolpati”». “Tante” altre volte? L’ha fatto tante altre volte, e l’ha rifatto ancora questa volta senza trovare innaturale assoggettarsi a un simile infame ricatto?
Per parte mia, il decennio abbondante di militanza comunista che seguì all’episodio ginostriano – e che fu tutt’altro che facile – terminò proprio quando venne l’epoca delle richieste pubbliche di discolpa. Se ne ricorda, Clara Sereni? Fu l’epoca della guerra del Libano, nel 1982, quando a sinistra si chiedeva e richiedeva a gran voce agli ebrei di tutto il mondo di dissociarsi da Israele e di ottenere un salvacondotto di rispettabilità attraverso una condanna del governo Begin. Rosellina Balbi denunciò con forza questa intollerabile pretesa in un memorabile articolo su La Repubblica: “Davide discolpati”. Altro che Radames… Fu un periodo cupo. Le umilianti giaculatorie di un certo numero di ebrei di sinistra non servivano a placare le arroganti richieste di dissociazione. E a forza di fomentare l’odio venne l’evento nefando: nel corso di un corteo dei tre sindacati confederali venne deposta una bara davanti al Tempio maggiore di Roma. E, infine, in questo clima di sordida ostilità, il terrorismo palestinese prese il coraggio di compiere l’assalto armato al Tempio che vide l’uccisione del piccolo Stefano Taché.
A ventiquattro anni di distanza ancora Clara Sereni non ha assimilato quella lezione e accetta di sottoporsi alla pratica umiliante della “discolpa”? Occorre forse rispiegare perché non dovrebbe? Non discuto il suo legittimo diritto di continuare ad essere comunista e di difendere l’attualità di Marx (il che mi fa venire in mente quanto diceva nel 1989 il mio amico scrittore Alberto Lecco: «Il comunismo è finito? Vedrete… Comincia adesso…). Non discuto la legittimità dei suoi giudizi su Israele e sulla questione palestinese. Siamo su posizioni diversissime, ma questo è irrilevante. Appunto: che c’entra? Perché mai, per conquistarmi il diritto a non essere afflitto da tirate antisemite, debbo fare una fede di professione comunista, antisionista, filopalestinese e dimostrare di essere un “ebreo buono”?
Insomma, perché, per non essere colpito dal razzismo, debbo legittimare il razzismo? [...]
A ventiquattro anni dalla campagna “Davide, discolpati”, Clara Sereni, invece di continuare a sottoporsi al ricatto, a “giustificarsi di essere ebrea”, a lasciarsi brutalizzare neanche più nelle vesti di David ma in quelle di Radames, dovrebbe intimare ai Golia razzisti: discolpatevi voi della vostra infamia, e vergognatevi, se ne siete capaci.
Tutto il suo intervento è intriso di patetiche illusioni. Si può davvero credere di ammorbidire i cattivi ripetendo la solita giaculatoria anti-sharoniana (“la politica del governo Berlusconi ha spiaccicato ebrei e Italia sulla politica di Sharon”). Che senso ha, mentre mezzo mondo ha fatto ammenda dei luoghi comuni su Sharon, continuare con la tiritera su Sharon boia? E perché mai la mossa di apertura verso Israele del ministro degli esteri Fini sarebbe stata efficace ma “scorrettissima”? Dove sta la scorrettezza? Nel non essere rimasto fedele a un’ortodossia fascista? Perché bisogna dire delle cose senza senso per non lasciar dubbi sulla propria ortodossia di sinistra?
Infine, forse l’illusione più patetica è tentare di convincere la sinistra a voler bene agli ebrei, per non regalarli alla destra e perdere le elezioni. Gli ebrei sono quattro gatti, ammette Clara Sereni, ma le elezioni si vinceranno per pochi voti, e quelli ebraici potrebbero essere decisivi. Ora, posto che su 30.000 ebrei non sono pochi quelli che voteranno per il centro-destra, quale sarebbe lo spostamento possibile:1000 o 1500 voti? E la sinistra, se non ci sta a voler bene agli ebrei per intima convinzione, dovrebbe mostrarsi benevola per l’opportunità di non perdere quel migliaio di voti? Me le immagino le sghignazzate dei commensali antisemiti di Clara Sereni… Peraltro, dopo aver fatto ricorso a un simile argomento, l’unica risorsa disponibile sarebbe mettersi in ginocchio e supplicare piangendo.
Capisco perfettamente l’ansia di Clara Sereni di perdere il rapporto con la sinistra, il suo attaccamento alla sua identità progressista. Ma la domanda è: qual è il modo più costruttivo e dignitoso per mantenere un rapporto autentico e realmente proficuo con quel mondo?
Per rispondere vorrei tornare a quel lontano 1982. Dopo la deposizione della bara davanti al Tempio maggiore di Roma, lo scandalo che ne seguì fu aggravato dalla reticenza delle dirigenze sindacali e, in particolare, dall’atteggiamento a dir poco ambiguo dell’allora segretario della CGIL Luciano Lama. Per me e per tanti altri fu la goccia che fece traboccare il vaso. Scrissi una lettera di sette pagine contro Lama che, in tutto o in parte, fu pubblicata da parecchi giornali e, con altri, promossi un appello che fu pubblicato su Repubblica col titolo “Lama e gli ebrei”. Ciò mi costò l’ostracismo di tanti ex-compagni. L’avviso venne da alto loco e fu perentorio: se non si ritira la lettera e l’appello la rottura è totale. Ancor oggi c’è gente che attraversa la strada se mi vede arrivare sullo stesso marciapiede. E appena qualche anno fa, quando raccontai queste vicende nel libro “La questione ebraica oggi”, venne fuori qualche maggiordomo della memoria di Lama a sostenere che quel che dicevo era falso, che Lama si era al contrario adoperato a condannare l’atto della deposizione della bara, che non aveva mai detto nulla di lontanamente equivoco. Insomma, ero io il fazioso, il rissoso e il calunniatore e il povero Lama era il crociato in difesa degli ebrei. Da non potersi credere. Riandai a leggermi l’appello pubblicato su La Repubblica pensando di essere ormai in preda all’Alzheimer. Diceva una cosa durissima: che il commento di Lama era «reticente e tale da offrire copertura [sic!] a quanti si sono resi responsabili di quegli atti», che erano definiti senza mezzi termini «neonazisti» e non accidentali bensì «pensati e organizzati». E sapete quali firme c’erano in calce a quell’appello? Fra le altre, quelle di noti proto-berlusconiani come Massimo Cacciari, Aniello Coppola, Giacomo Marramao, Claudio Pavone, Mario Pirani, Beniamino Placido, Luigi Spaventa. Eppure, nel 2002, ero diventato io l’unico cattivo e fazioso. Una tecnica arcinota e collaudata, quella della demonizzazione e dell’isolamento del reprobo, codificata dall’immortale maestro Josif Vissarionovic Dugasvili.
Ciò detto, ho forse perso qualcosa agendo in questo modo? Non credo proprio. Che perdita è mai quella della finta amicizia di gente di quella fatta? Era meglio non perdere il saluto dell’allora segretario della sezione universitaria del PCI (che ancora fa finta di non conoscermi) oppure sentirsi riconoscere pubblicamente da Piero Fassino che la mia “furia iconoclasta” è servita a stimolare riflessioni utili e costruttive? Era meglio tenersi buoni gli intellettuali che parlano di razza ebraica, o stabilire un dialogo fertile e costruttivo con persone come Giuseppe Caldarola e Umberto Ranieri? Esiste e cresce una sinistra aperta, attenta e senza pregiudizi sulla questione israeliana e sulla questione ebraica. Con questa bisogna parlare e non amareggiarsi i pranzi con la gentaglia: esistono pur sempre le porte per andarsene e ottimi ristoranti. Cara Clara Sereni, chi cova i pregiudizi di cui lei racconta non è certamente una persona “per bene” e, se è “di sinistra”, non cambia nulla: a destra e a sinistra i razzisti sono la stessa pasta di mascalzoni.
So bene quanto certi percorsi siano difficili e tortuosi. Sono l’ultimo a pretendere di giudicare, tanto meno di condannare. Ma ogni percorso nel deserto deve prima o poi finire nella terra promessa. Che è quella in cui si vive con una coscienza libera e, tra il partito-che-rappresenta-il-destino-storico e la verità, si sceglie la verità.
Giorgio Israel
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La foto è di Walker Evans.