8.12.99

Sharansky

IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 4 DICEMBRE 2004

LA SOCIETÀ CHIUSA E I SUOI NEMICI
DIARIO DI UN DISSIDENTE SOVIETICO CHE SPIEGA ALL’OCCIDENTE COME LIBERARE IL MEDIO ORIENTE


Pubblichiamo uno stralcio del saggio di Natan Sharansky “The Case for Democracy”, un libro che piace a Bush e che racconta come si vive nei regimi fondati sulla paura. Libertà e democrazia contro il lavaggio totalitario del cervello Il potere di una società della paura non si fonda mai esclusivamente sull’esercito e la polizia segreta. Altrettanto importante è la capacità di controllare ciò che viene, letto, detto, ascoltato e, soprattutto, pensato. E’ in questo modo che un regime fondato sulla paura cerca di mantenere un costante riserva di fedelissimi. I sovietici fecero ogni sforzo per plasmare la mente dei loro cittadini, sottomettendo le generazioni più anziane a un misto di aperta e di subdola riprogrammazione e costringendo i giovani ad assorbire l’ideologia ufficiale del governo sovietico. La voluminosa Enciclopedia di Stato che si trovava in casa di mio padre era un segnale costante della malleabilità della storia sovietica. Ogni qualche anno, dopo qualche morte o processo di primo piano, la nostra famiglia riceveva delle pagine ufficiali di aggiornamento e revisione. Le autorità ci avvertivano di inserire le nuove pagine al posto delle vecchie, che dovevano essere strappate e bruciate. Per chi vive in una società libera è particolarmente difficile comprendere come uno Stato possa cercare di fare un completo lavaggio del cervello ai suoi sudditi. Durante il mio viaggio in America mi incontrai con il presidente della casa editrice Random House, Robert Bernstein, un tenace critico del comportamento sovietico sui diritti umani. Bernstein mi chiese se in Unione Sovietica la gente poteva entrare liberamente in una libreria e acquistare libri. All’inizio non riuscivo a creder che stesse parlando sul serio. Poi capii che non aveva semplicemente nessuna idea su come funzioni una società della paura. Gli spiegai che la genta poteva entrare liberamente in libreria, ma i libri invece no. Tutte le società della paura si fondano su un certo grado di lavaggio del cervello. Televisioni, radio e giornali controllati dallo Stato glorificano le iniziative dei leader del regime e incitano la popolazione contro coloro che il regime considera suoi nemici. Recentemente, un ufficiale dell’esercito nordcoreano che aveva disertato ha raccontato di avere presieduto in un campo di prigionia ad alcuni esperimenti in cui i genitori venivano messi in una camera a gas insieme ai loro bambini. All’intervistatore della BBC che gli domandava come avesse potuto accettare di partecipare a una simile barbarie ha risposto: “Pensavo che quella gente si meritasse in pieno di morire. Perché a ognuno di noi era stato fatto credere che tutte le disgrazie della Corea del Nord erano avvenute per colpa loro… Mentirei se dicessi che provavo compassione per quei bambini condannati a una morte così orribile. Nella società e nel regime in cui vivevamo, mi sembravano soltanto dei nemici. Perciò non provavo nessuna compassione o pietà per loro”. Per il regime della Corea del Nord fare il lavaggio del cervello ai propri sudditi è risultato più facile di quanto lo sia per regimi che hanno a che fare con società meno isolate. L’Autorità Palestinese, tuttavia, ha dimostrato che è possibile influenzare le menti anche in società più aperte. Per 25 anni, i palestinesi sono vissuti sotto il controllo militare israeliano. I palestinesi lavoravano in Israele, e la società palestinese ha potuto conoscere da vicino la vita democratica di Israele. Ma dopo il trasferimento del controllo delle città palestinesi da Israele alla Autorità Palestinese di Arafat, quest’ultima ha usato ogni mezzo a sua disposizione per incitare i palestinesi a odiare Israele e gli ebrei. Quando, nel settembre 2000, sono iniziati gli attacchi del terrorismo palestinese, il livello di indottrinamento dei palestinesi aveva ormai raggiunto un livello parossistico. Su una televisione amministrata dall’AP, bambini di cinque anni con indosso una cintura esplosiva esortavano gli spettatori a unirsi a loro nella battaglia per la liberazione della Palestina, e le scuole sono state chiuse per permettere ai bambini di partecipare alla lotta. Un lavaggio del cervello così sistematico è destinato ad avere effetti disastrosi, soprattutto sui giovani. Non tutti sono abbastanza fortunati da avere un padre che gli spieghi che il loro “Grande Leader e Maestro” è soltanto un macellaio. Ma non deve nemmeno essere esagerata la solidità di questo indottrinamento. In una società della paura non si può riuscire a rendere la vita quotidiana costantemente piacevole. Prima o poi, tragiche esperienze smascherano le menzogne della propaganda e non si può più ingannare la gente. Occhi aperti. La rivoluzione del 1979 contro lo shah dell’Iran aveva un ampio sostegno da parte della popolazione. Ma sarebbe presto diventato chiaro che la rivoluzione aveva imposto un ordinamento religioso totalitario non meno corrotto e persino più repressivo del precedente. In meno di una generazione, il sostegno popolare si è interamente rivolto contro il regime. Benché in Iran le elezioni siano rigidamente controllate, con candidati accuratamente vagliati dagli ayatollah e con i media completamente controllati dallo Stato, gli iraniani hanno mostrato con sempre maggiore incisività la loro opposizione ai mullah eleggendo proprio qui candidati che sono considerati i più contrari all’ideologia del regime. Dopo 25 anni di fallimenti, di oppressione e di ristagno economico, pochi iraniani si lasciano ancora fare un lavaggio del cervello e convincere ad appoggiare gli ayatollah. L’atteggiamento di chi vive in società della paura nei confronti dell’America è un riflesso del loro atteggiamento nei confronti dei regimi di cui sono sudditi. Se l’America è ritenuta appoggiare questi regimi, come in Arabia Saudita e in Egitto, la gente odia l’America. Se invece è ritenuta una loro avversaria, come in Iran, la gente la ammira. Pochi mesi fa un dirigente di un’ex repubblica sovietica mi ha parlato di una sua recente visita in Iran: “Mi ha ricordato l’Unione Sovietica. Tutti i funzionari di governo criticano e condannano l’America, e tutta la popolazione la ama”. Anche coloro che odiano sinceramente l’America non odiano necessariamente anche l’idea di una società libera. Al contrario, parte del loro odio deriva dall’impressione che, appoggiando regimi democratici che li stanno opprimendo, l’America tradisca proprio quei valori democratici che pretende di difendere. Persino i più tenaci e convinti fedeli non riescono ad appoggiare per sempre una società della paura. Per decenni, Stalin terrorizzò non soltanto il popolo sovietico ma anche l’intera leadership del partito comunista. Dopo la sua morte nel 1953, nessun dirigente comunista è stato disposto a concedere la stessa assoluta autorità al suo successore. L’autorità del nuovo leader è stata limitata non perché la leadership comunista voleva mettere fine al regime totalitario ma perché essa stessa non voleva più vivere nella paura. Tanto più profondo è il livello di controllo esercitato da una società sui propri sudditi e tanto più rapido sarà il verificarsi di mutamenti. Nel 1989, uno studente nordcoreano che si era dichiarato dissidente politico poco dopo avere iniziato a fare studi di medicina in Cecoslovacchia osserva che “la maggior parte dei nordcoreani, cui è stato insegnato, praticamente fin dalla nascita, a considerare i due Kim come delle divinità benefiche, crede alla propaganda, esattamente come ho fatto io fino a quando ho visto la relativa libertà della Cecoslovacchia”. Non appena cessa l’opera di sistematico lavaggio del cervello e la verità comincia a venire alla luce, in ogni società emerge rapidamente una maggioranza non più disposta a vivere nella paura. E’ per questo, più che per qualsiasi altro motivo, che i tedeschi, i giapponesi, gli italiani, gli spagnoli, i russi e molti altri popoli ancora sono riusciti a passare dalla paura alla libertà nel corso del Ventesimo secolo. Questi popoli avevano culture, religioni, ideali, valori e stili di vita molto diversi; ma su una cosa erano tutti uguali: non avevano alcuna intenzione di vivere ancora nella paura. Sollevare il fardello. La determinazione di uomini e donne divenuti liberi - a non ritornare mai più ad una vita di paura non deve essere sottovalutata. Anzi, il senso di libertà che si prova lasciando il mondo dell’oppressione e dell’indottrinamento è qualcosa che non si dimentica facilmente. La mia liberazione dal mondo della paura è inziata quando ero ancora uno studente dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca, una scuola che si compiaceva di paragonarsi al MIT. Ritenendo che in questa scuola di “bambini prodigio” i metodi convenzionali di propaganda non avrebbero avuto effetto, le autorità ricorsero ad un tipo di propaganda più sofisticata, che poneva l’accento sull’importanza del lavoro che stavamo facendo. Tutti i discorsi sui diritti, la libertà e la giustizia, ci veniva detto, non erano altro che parole. Che valore hanno semplici parole in confronto alle immutabili leggi di Newton, Galileo ed Einstein? I valori politici vanno e vengono, mentre la scienza offre verità universali ed eterne. Ironicamente, io fui incoraggiato a lasciare una vita di occultamento del pensiero proprio da un uomo che era seduto in cima al mondo delle “verità eterne”. Nel 1968, in un saggio indirizzato alla leadership sovietica, Andrei Sakharov, il più autorevole scienziato dell’Unione Sovietica, scrisse che il progresso scientifico non poteva essere staccato dalla libertà umana. La soffocante atmosfera intellettuale che dominava all’interno dell’Urss ostacolava le capacità inventive dei russi e impediva alla nazione di imporsi come leader mondiale. Gli ideali del socialismo non sarebbero mai stati raggiunti, spiegò Sakharov, se l’Unione Sovietica non avesse accettato e sostenuto la libertà intellettuale. Con una coraggiosa dichiarazione, Sakharov aveva inflitto un grave colpo al potere sovietico. Il più grande scienziato di una superpotenza orgogliosa dei propri successi in campo scientifico affermava che la natura stessa della società sovietica non consentiva all’Urss di stare al passo con il mondo libero. Per un giovane scienziato che si interrogava sul suo futuro, il messaggio era stato forte e chiaro. Sakharov, che in seguito avrebbe rischiato tutto sfidando il regime a rispettare i diritti umani, divenne per me un modello ispiratore, e mi schierai ben presto dalla sua parte. Quando poi ho lavorato come suo tramite con i giornalisti, i diplomatici e i politici stranieri, ho scoperto che non c’era mai stato un divario tra gli intimi pensieri di questo umile uomo e le sue dichiarazioni pubbliche. Nel mio caso, la convergenza tra i miei pensieri e le mie parole, realizzatasi quando sono diventato un attivista ebreo, ha messo fine al mio disagio interno. Scrollandomi di dosso l’autocensura e l’occultamento del proprio pensiero, sono stato pervaso da uno straordinario senso di liberazione. Era come se fosse stato finalmente sollevato dalle mie spalle un enorme peso che aveva sopportato per anni e al quale mi ero ormai abituato. Improvvisamente, ero libero di pensare quello che volevo e dire ciò che pensavo. Persino quando mi sono trovato a fa- re un lungo sciopero della fame nella cella di un carcere, il senso di libertà non hi mai abbandonato. Per quasi tutti coloro che hanno vissuto tutta la loro vita nella paura, questa sensazione può essere provata soltanto quando la loro società è libera, quando sanno che si può andare nella piazza principale della città ed esprimere la propria opinione senza timore. E sarà una cosa euforizzante. Sono certo che questa sensazione trascende ogni differenza di razza, religione o cultura e che l’elisir della libertà abbia un’efficacia universale. E sono altrettanto certo che, quando un popolo conquista la libertà, farà di tutto pur di non tornare mai più a vivere nella paura. Dire, come fanno alcuni disfattisti, che un popolo potrebbe scegliere liberamente di vivere nella paura è come dire che chi ha conosciuto la libertà sarebbe disposto a tornare volontariamente alla schiavitù. Natan Sharansky (traduzione di Aldo Piccato)